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I misteriosi disastri aerei sulle Alpi

Fra l’ultimo dopoguerra e gli Anni Sessanta, la catena montuosa che separa Italia e Francia fu teatro drammatico di alcuni disastri aerei dei quali, ancora oggi, non è chiara la dinamica. Nel pieno rispetto per la memoria e in una prospettiva di analisi storica, raccontiamo di questa «Spoon River» dell’aviazione commerciale. Nelle montagne più alte d’Europa

I più fedeli lettori di «Motori360»ben ricorderanno, quel reportage su alcuni misteriosi disastri aerei, avvenuti sulle Alpi nel corso del secondo conflitto mondiale (https://www.motori360.it/29208/quegli-aerei-scomparsi-sulle-alpi-durante-il-conflitto), pubblicato nel marzo dello scorso anno. L’interesse verso la tragica, oscura vicenda del disastro di Ustica del 1980, alimentato recentemente dal film di Renzo Martinelli ora nelle sale, ci ha incoraggiato a proseguire nella nostra inchiesta. Approfondendo stavolta alcuni drammatici episodi, interessanti l’aviazione civile negli Anni Cinquanta e Sessanta.

Episodi oggi pressoché sconosciuti, ma che all’epoca in cui si verificarono destarono profonda impressione. Erano le prime vicende drammatiche che scandirono gli sviluppi dell’aviazione civile moderna.

Una premessa è d’obbligo. Subito dopo la fine del Conflitto mondiale, vi fu un naturale fermento dei paesi industrializzati per far riprendere, il più rapidamente possibile, i collegamenti aerei civili. A spingere in questa direzione erano schierate, per ovvie ragioni, anche le aziende costruttrici: il recente sforzo bellico, che per evidenti motivi poté rappresentare un campo di prova senza precedenti, aveva permesso di affinare esperienze e tecniche produttive, pronte ora per essere messe a disposizione del nascente mercato civile. Che avrebbe così potuto compensare l’inevitabile calo di commesse militari.

Le compagnie aeree, dal canto loro, avevano già raggiunto negli Anni Trenta notevoli standard di servizio: basti pensare alle traversate intercontinentali con i grandi biplani Handley-Page 42 dell’Imperial Airways, ai lunghissimi voli transatlantici effettuati a ridosso dello scoppio della guerra con enormi idrovolanti, come i Boeing 314 Clipper o gli Short S23 e S30 inglesi, e all’estrema raffinatezza che veniva riservata ai pochi, fortunatissimi passeggeri.

Anche gli economisti credevano nel futuro del trasporto aereo: un futuro che, del resto, le tecnologie del tempo rendevano fattibile. Tornare ai voli regolari, non solo nazionali ma anche internazionali, magari proprio tra quelle stesse nazioni che, fino a pochissimi anni prima, erano in stretta belligeranza, rappresentava molto più di un segnale di distensione. Si trattava di una vera e propria strategia di promozione sociale, culturale e, soprattutto, finanziaria. I collegamenti internazionali, in Italia, ripresero nel 1947: quell’SM 95 di Alitalia (Aero Linee Italiane), che trasportò da Roma a Oslo un gruppo di marittimi, rappresentò la rinascita della nuova aviazione civile italiana, che si allineò così a quanto accadeva negli altri paesi europei.

Erano poi sempre più frequenti i voli intercontinentali, che magari impiegavano due giorni, e quattro o cinque tappe, per effettuare una linea che, oggi, richiede meno di dodici ore. Il volo Air India 245 era uno di questi: si trattava di un collegamento internazionale della compagnia di bandiera indiana, operato con un nuovissimo (per l’epoca) quadrimotore Lockheed L-749 Constellation. Praticamente, lo stato dell’arte dell’aviazione commerciale del periodo.

La storia del «Malabar Princess»

È il 3 novembre del 1950. Quel Constellation proveniente da Bombay, denominato «Malabar Princess» (Principessa di Malabar), è diretto a Londra, sulla rotta che prevede scali intermedi al Cairo e a Ginevra. A bordo del quadrimotore vi sono quaranta marinai indiani, che dovranno imbarcarsi a Newcastle e salpare per gli Stati Uniti, e otto componenti di equipaggio. Sono le 10.30 del mattino: l’aereo sorvola il versante francese del Monte Bianco e procede in avvicinamento verso Ginevra ma, improvvisamente, il controllo aereo ne perde le tracce. Le condizioni atmosferiche sono estremamente sfavorevoli, i venti fortissimi e, sulla zona, imperversa una forte nevicata. I soccorsi non possono così intervenire prontamente per le ricerche e solo qualche giorno dopo, migliorate le condizioni meteo, un DC 3 della Swissair riesce a individuare la carlinga del Constellation.

Si scopre così la verità drammatica: il velivolo si è schiantato a 4.677 metri di quota contro il Rocher de la Tournette, sperone roccioso del versante francese del Monte Bianco, uccidendo all’istante tutti i passeggeri. Raggiungere il relitto – spezzatosi in più parti, ed esploso al momento dell’impatto – è impresa tutt’altro che facile. Impensabile, poi, pensare di rimuoverlo: nel corso degli anni seguenti, la montagna avrebbe restituito bagagli, oggetti, parti del velivolo, e i resti degli sfortunati passeggeri.

Nel 1978 sarebbero scivolate a valle delle lettere, trasportate dal Constellation, che poterono così essere recapitate 28 anni dopo il disastro. Altre 75 lettere, tutte dirette in America, vennero recuperate nel 2008 da una studentessa di geologia inglese, al seguito del glaciologo Tim Reyd che studiava il ghiacciaio del Miage in Val Veny. La scoperta, anche in questo caso, fu del tutto casuale: la studentessa, dopo essersi inoltrata per 2 km tra i crepacci per analizzare alcune stratificazioni dei ghiacci vide all’improvviso un contenitore blu, al cui interno era conservata una parte della corrispondenza trasportata dal «Malabar Princess».

 

Qualche tempo prima, nel 1987, un alpinista aveva recuperato una ruota del carrello, oggi esposta in memoria del disastro presso lo Chalet del Ghiacciaio di Chamonix; il 15 settembre dello stesso anno, nel versante francese, riaffiorò sul ghiacciaio dei Bosson – a 1.900 metri di altitudine – uno dei motori, mentre un secondo fu rinvenuto il 22 settembre del 2008, sempre sullo stesso luogo ma a una quota maggiore (2.000 metri), a testimonianza del continuo movimento della massa di ghiaccio.

La vicenda del «Malabar Princess», uno dei più gravi disastri aerei del dopoguerra, provocò una grande impressione nel mondo, anche per la percezione evocata dai luoghi riconducibili a essa. Due anni dopo, lo scrittore Henri Troyat pubblicò il romanzo «La neve a lutto», direttamente ispirato all’incidente sul Monte Bianco: dal libro sarebbe poi stato tratto, nel 1956, il film «La Montagna», che vede Spencer Tracy e Robert Wagner impegnati a raggiungere quel che resta di un aereo di linea, proveniente da un ricco paese lontano e precipitato su una cima delle Alpi Svizzere, allo scopo di impossessarsi delle ricchezze trasportate.

A tangibile dimostrazione su come questo disastro aereo sia stato «sentito» dalla collettività, non si può non ricordare una sua citazione nel celebre film «Il favoloso mondo di Amélie» del 2001. La protagonista del film, desiderosa di donare felicità agli altri, legge del ritrovamento casuale di un sacco postale del «Malabar Princess», e recapita alla portinaia dello stabile in cui abita, vedova, una falsa ultima lettera d’amore del marito, facendole credere che sia riapparsa in quella circostanza.

Nel 2004, infine, ebbe un certo successo il film «Malabar Princess» (inedito in Italia), in cui due ragazzi decidono anch’essi di raggiungere un aereo precipitato, per recuperarne il carico.

La fantasia, a dire il vero, anticipò la realtà: perché qualche anno dopo, esattamente alle prime ore del 21 marzo del 1963, un quadrireattore , all’epoca uno dei velivoli più lussuosi mai realizzati, esplose schiantandosi sotto la sommità della Cima Bifida, a Valdieri (Alpi Marittime). L’aereo era in volo da Ginevra all’aeroporto di Nizza, per trasportare il nutrito seguito del Re Saud.

Nella notte dell’incidente, tutte le cime innevate del massiccio riflessero i bagliori dell’incendio: fu quindi problematico individuare il punto di impatto. Si andò quindi per tentativi e solo dopo 40 giorni, in cui avvennero oltretutto abbondanti nevicate, finalmente fu avvistato uno stabilizzatore e, dispersi lungo tre valloni, i resti dell’aereo. Anche in questo caso, sull’emozione per la tragedia umana, prese il sopravvento la fantasia: quel Comet era una vera e propria «suite volante», carico di oggetti preziosi e di danaro. Durante le settimane delle ricerche, la zona fu piantonata dai Carabinieri per evitare possibili tentativi di sciacallaggio. Il recupero delle diciotto vittime poté terminare soltanto il 30 luglio: ma anche in questo ultimo caso la montagna, di tanto in tanto, restituisce qualche traccia o residuato dell’aereo.

Non è mai stata fatta chiarezza sulle cause dell’incidente: le perizie successive ai ritrovamenti avrebbero escluso l’eventuale esplosione di ordigni, mentre le ultime comunicazioni con la torre di controllo non fecero sospettare anomalie o malfunzionamenti, inizialmente additati come le cause più probabili. Va infatti ricordato come, a quel tempo, si fossero sopite da poco le polemiche inerenti i Comet entrati in servizio alcuni anni prima. Il quadrireattore inglese che, come noto, fu il primo jet passeggeri a effettuare regolarmente collegamenti di linea, era operativo dal 1951, ma poco dopo la sua immissione in servizio – fra il 1952 e il 1954 – si verificarono alcuni gravi incidenti, che portarono alla perdita di ben quattro Comet. Due di questi aerei caddero, peraltro in mare, e precisamente in acque italiane, vicino Stromboli e l’Isola d’Elba: entrambi erano decollati da Roma Ciampino. La ravvicinata serie di incidenti impose l’immediata messa a terra di tutti i Comet, e l’avvio di un’approfondita inchiesta per chiarire le origini delle anomalie. L’inchiesta comportò anche il recupero del Comet caduto all’Elba, e la ricostruzione di un’enorme vasca d’acqua per immergervi una fusoliera, così da simulare i cicli di fatica di un volo. La causa dei disastri fu così individuata: si trattava di un finestrino difettoso, che non reggeva alle ripetute pressurizzazioni, e cedeva dopo un certo periodo. L’indagine destò l’ammirazione del mondo intero e, dopo un’attenta opera di riprogettazione e ricostruzione sulla base degli elementi acquisiti, il velivolo rinnovato poté riprendere il servizio. La caduta del Comet aveva, in pratica, riaperto un capitolo che si pensava fosse superato per sempre: era effettivamente così ma, per poterlo capire, ci volle qualche tempo.

La persecuzione di Air India

Un’altra tragedia, sempre sul tetto d’Europa, toccò ancora una volta alla compagnia Air India: il 24 gennaio 1966 il Boeing 707 battezzato «Kangchenjunga» (letteralmente «Ottomila Himalayano»), era in volo sulla tratta Bombay-New York con scali intermedi a Beirut, Ginevra e Londra. D’un tratto, scomparve dagli schermi radar di Milano, mentre si apprestava a sorvolare il Monte Bianco.

Questa volta i soccorritori giunsero tempestivamente con gli elicotteri, ma per i 117 passeggeri a bordo non c’era più nulla da fare. Tra di loro, il fisico nucleare Homi Jehangir Bhabha, padre dell’atomica indiana, che solo qualche mese prima aveva affermato come l’India fosse pronta ad assemblare la propria bomba atomica. Una circostanza che, ancora oggi, fa ancora «gridare al complotto», secondo un intrigo internazionale ben ipotizzato da uno storico francese, ma privo ancora di qualsiasi fondamento o prova.

Sembra invece, in base alle testimonianze dei soccorritori, che alcune delle 200 scimmie, trasportate nel vano cargo del 707 e destinate ad un laboratorio medico statunitense, sopravvissero allo schianto. Anche all’epoca della caduta del 707 si disse che, a bordo, vi fosse un facoltoso Marajà e si fantasticò, più per una forma indotta di autosuggestione che in base a riscontri obiettivi, che la stiva del Boeing contenesse una grande quantità di gioielli. Furono in realtà ritrovate due valigie, contenenti però soltanto documenti senza alcun valore. E anche se fu smentita seccamente l’ipotesi della presenza di gioielli o valori di qualsiasi natura, dall’estate successiva non furono pochi quelli che si cimentarono tra i ghiacci, in una sorta di ardita, ma pericolosa, caccia al tesoro. Anche in questo caso, il lento scorrere del ghiaccio verso valle restituisce, di tanto in tanto, parti di velivolo, tenendo sempre vivo il ricordo di quelle tragedie.

Nell’estate del 1985 due alpinisti piemontesi, impegnati in un’ascesa sul Monte Bianco si imbatterono nella coda del «Kangchenjunga» che, sotto un velo luccicante di ghiaccio lasciava trasparire la silhouette di una danzatrice del ventre: il simbolo della compagnia aerea. La montagna restituisce non solo pezzi di carlinga e delle ali ma, talvolta, ben altro: come nel settembre del 2013, quando venne rinvenuta una cassetta contenente preziosi, e gioielli. Non si è mai saputo se provenisse dal «Malabar Princess», o dal 707 precipitato sedici anni dopo: un dubbio che ha ulteriormente alimentato la curiosità e gli entusiasmi di curiosi e visitatori di ogni specie.

I più attenti si recano in questa malinconica, immensa «Spoon River» dei cieli armati di metal detector, sperando magari di trovare qualcosa che sia molto più di un ricordo, o di una traccia di memoria storica, agevolati dalla tecnologia in quella che, evidentemente, è una forma di turismo del tutto particolare. Innocua, sicuramente ma, forse, troppo animata da istinti voyeuristici: sui quali, a ben vedere, sarebbe il caso di porsi più di una domanda.

[ Alessandro Ferri ]

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