Celebrato a Indianapolis il 75° anniversario della vittoriosa avventura della Maserati nella corsa più famosa degli States
Prima dell’avvio dell’edizione 2014 della 500 Miglia di Indianapolis, Johnny Rutherford, tre volte vincitore a Indianapolis esattamente come Wilbur Shaw, ha percorso il Victory Lap/giro d’onore, al volante della Maserati 8CTF Boyle Special telaio 3032 che 75 anni prima proprio Shaw portò alla vittoria sul Brickyard.
Al di là di articoli ed interviste è stato probabilmente il miglior modo per rendere omaggio alla prima vettura non statunitense che vinse, e non solo una volta, la corsa più importante d’America; ripercorriamo assieme questa affascinante tappa della storia del Tridente.
Prima della seconda guerra mondiale la Maserati degli omonimi fratelli versava in gravi condizioni economiche: la proprietà puntava unicamente su tecnica e sport trascurando il lato gestionale sino a far entrare in crisi l’azienda e solamente il provvidenziale ingresso di Adolfo Orsi che la rilevò, ne risolse i problemi economici.
Ernesto Maserati, sgravato da “banali” questioni amministrative, ebbe così la possibilità nel 1938 di concentrarsi su quanto più gli era congeniale ed il primo risultato del nuovo corso fu il motore 8CTF (8 cilindri Testa Fissa) che, sovralimentato con due compressori di tipo Roots, arrivò ad erogare – all’apice del suo sviluppo – ben 366 cavalli che permettevano all’auto di toccare i 290 km/h.
Fu questa l’arma italiana che, ribattezzata “Boyle Special“, permise a Wilbur Shaw, già vincitore della prestigiosa gara americana nel 1937, di aggiudicarsi anche le edizioni 1939 e ‘40 segnando un record tutt’ora imbattuto: la Maserati fu, infatti, la sola vettura di integrale costruzione italiana a vincere la 500 Miglia di Indianapolis.
A dir la verità Shaw ritentò l’impresa, sempre al volante della sua fida Maserati “Boyle Special”, anche nel 1941 ma dopo ben 107 giri in testa la rottura di una ruota causò un brutto incidente che procurò a Shaw una tripla frattura alla schiena; ma l’avventura americana di questa monoposto era destinata a continuare: finito il secondo conflitto mondiale, la Boyle Maserati tornò nel ’46 ad Indy condotta da Tom Horn che conquistò un onorevole terzo posto, ripetendosi l’anno dopo per giungere poi quarto nel 1948; non male per un’auto concepita nel lontano 1936… Ma ancora non era finita: anche se nel 1949 l’auto subì l’onta del suo primo, comprensibile (ed unico) doppiaggio della sua carriera, permise tuttavia nel 1950 a Bill Vukovich, basso in statura ma non in coraggio, di superare positivamente il cosiddetto “rookie test” (ndr. test obbligatorio in pista cui si dovevano sottoporre quanti intendessero correre la 500 Miglia).
Ma ora un passo indietro
L’avventura americana della Maserati iniziò nel momento in cui Shaw – alla Vanderbilt Cup di Long Island – notò non senza meraviglia l’altissimo livello tecnico delle auto europee da Grand Prix ivi presenti e su questo aspetto attirò l’attenzione del suo amico Mike “Umbrella” Boyle, facoltoso business-man ed amante dei motori; in particolare proprio discutendo delle Maserati, Shaw sottolineò che “se avesse avuto un’auto del genere, avrebbe potuto vincere la 500 miglia.”
Ed era scritto che il matrimonio s’avesse da fare in quanto la Casa italiana – interessata a farsi conoscere negli States – fornì nel 1937 a Shaw una 6CM con motore da 91 pollici cubici che, valida per le competizioni europee, si rivelò tuttavia inadatta per le gare USA ed, in particolare, per una competizione impegnativa come Indianapolis. Il giusto tool per questo specifico scopo si materializzò l’anno dopo nel propulsore 8CTF da 3 litri inviato a Shaw via mare dall’Italia. Gli italiani però, viziati dal clima, non avevano pensato alle rigide temperature che caratterizzavano in quel periodo la traversata atlantica e queste, in assenza di anticongelante nel motore fecero il loro dovere crepando il monoblocco… e dire che Boyle aveva corrisposto ben 15.000 dollari, un prezzo ben superiore a quello di qualsiasi altro propulsore Indy di fabbricazione americana, ma ne valse la pena…
Il propulsore venne ripristinato in loco dal capacissimo Cotton Henning e quindi installato nel telaio della monoposto che già si trovava negli States; da quel momento, a dimostrazione che l’America dà sempre una chance a chi tenta l’avventura, l’auto ebbe una vita agonistica ricca di soddisfazioni e inaspettatamente longeva. La monoposto sembrava infatti esser stata concepita proprio per il “Brickyard”, il celebre fondo in mattoni rossi della Speedway che in realtà i progettisti italiani non avevano mai visto.
In realtà l’auto debuttò nel maggio del 1938 al Gran Premio di Tripoli dimostrando ottime potenzialità ma la partecipazione a gare europee fu estremamente scarna a causa dell’avvicinarsi della Seconda Guerra Mondiale e questo compromise lo sviluppo della vetturache trovò, come appena evidenziato, ampio spazio oltre-oceano.
L’auto
Questa monoposto dalla filante carrozzeria in alluminio riuniva simbioticamente soluzioni sofisticate e semplicità estrema: il telaio era formato da due longheroni e traverse d’acciaio di collegamento la cui centrale, ad esempio, fungeva da serbatoio dell’olio motore la cui lubrificazione forzata avveniva attraverso pompe di mandata e recupero.
Progettato da Ernesto Maserati, il motore 8CTF era il cuore pulsante dell’auto: 2.991,4 cc suddivisi fra gli otto cilindri in linea con alesaggio e corsa rispettivamente di 69 mm e 100 mm (un corsa lunga come usava allora) mentre il basso rapporto di compressione (6,5:1) trovava giustificazione nella presenza di due compressori tipo Roots da 15 PSI alimentati da due carburatori Memini e di modello MA12, montati a monte dei compressori stessi; ognuno dei due gruppi di alimentazione serviva quattro cilindri mentre la testa fissa ospitava un sistema di distribuzione a doppio albero a cammes che comandava due valvole per cilindro disposte a 90° e l’accensione era singola con magnete tipo Scintilla.
Il propulsore 8CTF, se da una parte era molto meno potente sia dei 6 cilindri Sparks-Thorne che degli 8 cilindri Winfield appositamente progettati per Indianapolis, dall’altra aveva dalla sua i compressori a lobi Roots che, a differenza di quelli centrifughi, lavorano in parallelo al motore, erogando potenza sin dai regimi più bassi e garantendo quindi una spinta dolcemente ma inarrestabilmente progressiva lunga quanto l’arco di rotazione del motore stesso; questa caratteristica, esaltata da un cambio a soli quattro rapporti (+RM) permetteva al pilota di accelerare prima degli altri sull’irregolare fondo in mattoni di Indy senza incorrere in reazioni brusche.
Altre caratteristiche tecniche che permisero Wilbur Shaw di districarsi nei momenti di maggior bagarre in pista erano tenuta di strada e frenata e, in sostanza, l’invidiabile equilibrio complessivo dell’auto. Le sospensioni anteriori erano a ruote indipendenti e barre di torsione, mentre quelle posteriori erano più tradizionalmente a balestre. Sia l’avantreno che il retrotreno erano dotati di barra stabilizzatrice mentre gli ammortizzatori erano davanti a frizione e idraulici dietro. Lo sterzo era a vite senza fine, mentre l’azione frenante era efficacemente garantita dagli enormi tamburi in magnesio da 16 pollici a comando idraulico mentre le monoposto statunitensi montavano sistemi frenanti derivanti dalla produzione di serie che spesso non venivano neppure modificati; come facilmente intuibile questo forniva un ulteriore, grande vantaggio a Wilbur Shaw nelle cui mani l’auto si dimostrò semplicemente imbattibile.
La Boyle Maserati, completamente restaurata e riverniciata nella sua originale livrea rosso amaranto del 1939/41, fa oggi bella mostra di sé all’Indianapolis Motor Speedway Museum a testimonianza sì delle imprese di Wilbur Shaw ma anche della validità della scuola tecnica europea che mise in grado il suo rosso Davide prima di battere e poi di competere sempre validamente con i vari Golia yankee.
Il pilota
Nato nel 1902 a Shelbyville, Indiana, Wilbur Shaw è stato un campione del volante dotato di ottimo intuito meccanico e divenne, appeso il casco al chiodo, una delle figure più importanti nella storia di Indianapolis.
Debuttò sul celebre ovale nel 1927, condividendo il volante con Louis Meyer ed arrivando, proprio non male per un deb, quarto assoluto conquistando poi, dal 1933 al 1940, un settimo e due secondi posti, nonché 3 vittorie assolute.
Ma Shaw fece registrare nel 1937 un altro record, il più breve distacco dal secondo (2,16”) che resistette per ben 45 anni, sino cioè al 1982, anno nel quale Gordon Johncock precedette Rick Mears solamente di 16”’; in realtà Shaw aveva accumulato a 20 giri dalla fine un vantaggio su Ralph Hepburn di ben 2 minuti ma un improvviso calo nella pressione dell’olio lo indusse ad alzare il piede dall’acceleratore e gestire il vantaggio che scese così a soli 2,16”: una dimostrazione della freddezza del pilota ma anche della resistenza dell’auto.
Nel 1941 Shaw, dopo aver condotto la gara per ben 107 giri consecutivi, venne tradito dalla rottura di una ruota che fece carambolare l’auto con gravi conseguenze per la schiena del pilota che subì tre lesioni; fu l’ultima gara di Shaw e questo coincise con la sospensione dell’attività del circuito a causa dell’entrata in guerra degli USA.
Quando nel 1944 Shaw venne ingaggiato dalla Firestone per collaudare un nuovo pneumatico, trovò Indianapolis in uno stato di totale abbandono, tanto da non essere praticabile ed in quel momento iniziò la sua personale crociata per salvare il circuito che lo vide poi diventare suo Presidente e General Manager, cariche che gli furono riconfermate per i successivi 10 anni ed era ancora in carica quando, nel 1954, perì in un incidente aereo.
Maserati ed Indianapolis: un filo lungo ¾ di secolo
Indy è il nome di una delle più belle vetture da Gran Turismo mai costruite dalla Maserati che la produsse dal 1969 al 1975 e che venne così battezzata proprio per ricordare le due vittorie del 1939 e del 1940 alla 500 Miglia.
Disegnata da Virginio Vairo della Vignale, dopo l’anteprima al Salone dell’automobile di Torino del 1968, la Indy venne ufficialmente presentata al Salone di Ginevra del 1969 in sostituzione della Sebring.
La produzione iniziò nello stesso 1969 e la Indy venne inizialmente dotata di un motore V8 di 4,2 litri che nel 1970 venne affiancato da un V8 di 4,7 litri e nel ‘71 dal V8 di 4,9 litri della Ghibli, depotenziato a 320 cavalli La razionalizzazione della produzione fece sopravvivere, a partire dal 1973, solamente quest’ultima unità che, come gli altri 8V, era dotata di quattro alberi a camme in testa e di quattro carburatori Weber 42 DCNF; il cambio era un ZF a cinque marce più retromarcia (in opzione veniva offerto un automatico Borg-Warner a tre marce) e la trazione era, ovviamente, posteriore.
Ma l’avventura americana, prima dell’Indy GT, lasciò un segno ben più corsaiolo: la bianca 420/M/58/ resa celebre dalla sponsorizzazione (la prima di un’azienda non del ramo automobilistico) della Eldorado, un’azienda produttrice di gelati e dal fatto che venne appositamente preparata per gare tipo la 500 Miglia per le quali si fece all’epoca qualche timido tentativo europeo.
La “Eldorado” (telaio a traliccio e carrozzeria in alluminio) venne costruita, sulla base del telaio della Formula 1 del 1958, per partecipare alla 500 Miglia di Monza, gara che vedeva l’incontro/scontro fra monoposto americane ed europee di caratteristiche analoghe. Il motore, dissassato di 9 cm rispetto all’asse longitudinale della monoposto, non era più il 6 cilindri in linea da 3 litri della Formula 1 bensì un V8 a corsa corta da 4,2 litri circa, con un rapporto di compressione di 12:1 ed una potenza di massima di 410 cavalli a 8.000 giri al minuto che la spingeva sino a 350 km/h.
Le altre caratteristiche tecniche
Doppia accensione a magnete della Marelli, alimentazione mediante quattro carburatori Weber 46 IDM, distribuzione a doppio albero a camme in testa e due valvole per cilindro, lubrificazione forzata con pompe di mandata e recupero e raffreddamento ad acqua con pompe centrifughe.
Le ruote, non le tradizionali italiane a raggi tipo Borrani, erano le Halibrand in lega, mentre i freni erano a tamburo. Le sospensioni anteriori erano a molle elicoidali e ammortizzatori idraulici mentre quelle posteriori adottavano un Ponte De Dion, una balestra trasversale e doppi ammortizzatori idraulici. Lo sterzo era a vite senza fine mentre la trasmissione si basava su cambio posteriore senza differenziale a due soli rapporti più retromarcia; l’abolizione del differenziale, a parte il minor peso, era giustificata dalla specifica progettazione per i circuiti ovali nei quali l’andamento delle curve era tale da compensare la differenza di giri tra la ruota esterna e quella interna e conseguente, leggero slittamento.
Una monoposto imponente: in metri era lunga 4,80 con un passo di 2,40, larga 1,20 ed alta 1,11, mentre la massa complessiva era di 780 kg.
L’auto debuttò pilotata da Stirling Moss, contro vetture formula Indy americane, alla 500 Miglia di Monza del 1958 (definita sia The Race of Two Worlds – Corsa dei Due Mondi che Monzanapolis) che veniva disputata per il secondo anno consecutivo sull’anello di alta velocità del circuito brianzolo da percorrere in senso contrario.
Pur avendo dato buona prova di sé nelle prime due sessioni, al 40º giro della terza lo sterzo si ruppe e la vettura uscì dal tracciato a 260 km/h senza particolari conseguenze per Moss al quale venne comunque attribuito il settimo posto; l’Eldorado partecipò anche alla 500 Miglia di Indianapolis del 1959, ma non andò oltre i test per problemi all’alimentazione.
Gli americani vinsero sia nel ’57 con Jimmy Bryan che nel 1958 con Jim Rathmann. Nonostante il successo di pubblico le preoccupazioni per le altissime velocità (ricordiamo l’ondata anti-corse seguita alla tragedia di DePortago alla 1000 Miglia del 1957) ed i costi di gestione dell’evento sconsigliarono la prosecuzione di questo esperimento.
Giovanni Notaro