Tozza, sproporzionata e brutale quindi…. decisamente attraente!
Il ghepardo (Cheetah in inglese) è il più veloce animale terrestre; se ne «automobilizziamo» le prestazioni vediamo che copre lo 0-100 km/h in 3”, può raggiungere i 120 km/h ed è rapidissimo anche nello scatto da fermo a 500 metri; ed è a questo felino che nel 1964 Bill Thomas si ispirò così chiamando la sua auto esattamente come Carrol Shelby scomodò il cobra per stigmatizzare le venefiche potenzialità della sua GT.
La Cheetah esaspera il concetto di vettura sport a motore anteriore e trazione posteriore come poche altre al mondo: il telaio ospita il motore in posizione centrale ed il cambio ad esso connesso letteralmente all’interno dell’abitacolo fra i due piccoli sedili anatomici; dietro questi troviamo la scatola del differenziale mentre i due semiassi posteriori lavorano a ridosso degli schienali. Questa esasperata impostazione ha fra l’altro prodotto un cortissimo albero di trasmissione, una leva del cambio leggermente inclinata in avanti, con il pomello che sfiora il cruscotto ed addirittura il radiatore dell’acqua posizionato ben dietro l’avantreno.
L’abitacolo, nudo nelle versioni racing e rivestito in leggeri pannelli di fibra di vetro in quelle stradali, è essenziale ma, una volta al posto di guida, tutto risulta altamente funzionale come la bella strumentazione Stewart Warner ed il pomello della leva del cambio ben vicino al classico volante a calice Moon a tre razze.
Masse basse e raccolte come queste, supportate da un leggero telaio a traliccio in tubolare d’acciaio al cromo-molibdeno 4130, permisero di disegnare un’auto compatta e leggera; il propulsore V8 Chevrolet di 5.351 centimetri cubici sviluppava 450 cavalli a 6.200 giri/min con un rapporto peso potenza pari a 1,5 kg/cv e proprio questo rapporto mostruosamente basso si è a volte rivelato, in un’epoca di totale assenza di controlli elettronici, più un handicap che non un fattore di competitività. Imponeva infatti al pilota la massima attenzione nel dosare il gas in uscita di curva in quanto potenza esuberante, peso ridottissimo e passo corto rendevano costante il rischio di testa coda per sovrasterzo di potenza già sull’asciutto…
Quanto ai canoni estetico-funzionali – lontani anni luce da quelli europei – qui ci troviamo di fronte all’estremizzazione dello spirito yankee e questo piace o non piace senza mezze misure; del resto il rude appeal della Cheetah poggia interamente sulla brutalità ancor più che nella pur aggressiva Cobra.
Questo mostro, talmente iconico da essere stato riproposto nel tempo sia come «kit-car» che come replica, ostenta un cofano smisurato, un piccolo padiglione talmente arretrato da sembrare caricaturale ed un taglio dei passaruota posteriori che, unito all’andamento lenticolare della parte posteriore dell’auto, sembra fatto apposta per esaltare le grandi ruote quasi più larghe che alte tanto che – nella vista ¾ posteriore – mantengono all’interno dei parafanghi solo la parte superiore.
Altro elemento distintivo è costituito dalle portiere ad ala di gabbiano stile «Gullwing Mercedes» ma con la differenza che queste, in confronto, sono microscopiche ed hanno una soglia di ingresso molto più alta; una combinazione che richiede agli occupanti ad una buona forma fisica per poter entrare e, ancor di più, per uscire dall’auto (ovviamente una volta estratto il volante amovibile…).
Il muso largo, tozzo ed aggressivo richiama quello di uno squalo tigre ed anche la fiancata risulta più compatta che slanciata caratterizzata com’è da sbalzi anteriore e posteriore veramente minimali; infine l’andamento del sottoscocca sembra strizzare l’occhio più alla portanza che non all’aderenza.
Chi predilige lo stile europeo e più in particolare italiano non saprebbe quali aggettivi utilizzare per poterla definirla senza sembrare altezzoso eppure la Cheetah è lì, sfrontata e ribelle, a sfidare convenzioni e demolire canoni e, forse, è proprio questa la sua ragion d’essere e la sua capacità di attrazione.
La (breve) storia
L’avvento della Cobra solleticò la fantasia di Bill Thomas spingendolo a costruire un’auto in grado di opporsi validamente alla creatura di Shelby.
Analogo e contemporaneo «mood» era quello della Chevrolet che, mal digerendo l’egemonica accoppiata Ford-Shelby – che disturbava non poco l’immagine della Corvette – sostenne l’iniziativa di Thomas che, con la collaborazione di altri due artigiani americani specializzati nella costruzione di auto da corsa – Don Edmunds and Don Borth – realizzò la sua Cheetah che, come biglietto da visita, esibì una top speed di 185 mp/h sul circuito di RoadAmerica e 215 mp/h a Daytona (rispettivamente 297,73 e 346,01 km/h).
Pur prodotta in piccoli numeri, l’auto si dimostrò nel corso della stagione agonistica 1964 estremamente competitiva, vincendo – anche davanti a McLaren e Lola – per ben 11 volte; divenne così – anche in versione stradale – una vera e propria dream-car non nel senso «salonistico» del termine ma proprio come oggetto del desiderio di molti appassionati americani.
Per ottenere l’omologazione FIA in Gran Turismo, la Cheetah avrebbe dovuto produrre almeno 100 esemplari identici ma nella vita ci vuole fortuna e Bill Thomas vide la Dea bendata girargli bruscamente le spalle: la Chevrolet si ritirò dall’affare e, pressoché contemporaneamente, un incendio distrusse la fabbrica, decretando la prematura fine di un’iniziativa che aveva prodotto sino a quel momento solamente 23 vetture (22 berlinette + 1 roadster). Va detto comunque che sui numeri esistono versioni discordanti: chi parla di 11 e chi conferma 23; in entrambi i casi anche la pochezza della produzione ha contribuito all’alone di leggenda che gira attorno alla Cheetah.
Due esemplari unici
La Cheetah ha prodotto, fuori serie, una Roadster ed una Coupé. Quella che sembra essere l’unica Chetaah roadster originale esistente al mondo merita essere citata se non altro per la sua genesi. Prima di tutto il nome – Cro-Sal Special – derivante dall’unione delle prime lettere dei cognomi di meccanico e proprietario/driver (Gene Crowe il primo e Ralph Salyer il secondo) ma soprattutto la motivazione che ha indotto alla realizzazione di questa versione scoperta: non tanto la voglia di distinguersi e neppure quella di possedere un oggetto ancora più esclusivo della berlinetta.
Pare che altre due siano state le ragioni alla base dell’eliminazione del padiglione: la prima, molto semplicemente, derivava dall’insopportabile calore che, proveniente dall’enorme propulsore e relativi scarichi, trasformava l’abitacolo in un vero e proprio forno (per motivi di peso gli isolanti semplicemente non erano previsti e comunque poco avrebbero potuto fare) e la seconda – ancora più importante – trovava giustificazione ancora più fondata nel fatto che all’interno dell’abitacolo, con l’aumentare della velocità, si accumulava una tale quantità di aria da far talvolta saltare via, alle massime velocità, le piccole portiere ad ala di gabbiano ed il lunotto posteriore… cosa che si verificò nel 1964 sulla pista di Daytona quando l’auto superò le 200 miglia orarie.
Altro esemplare unico, a nostro avviso ancora più interessante, è la «Aluminium super Cheetah» una coupé aerodinamica costruito da Bill Thomas e che, prima dell’incendio che distrusse la fabbrica, avrebbe dovuto essere nel 1965 il prototipo di una seconda serie con carrozzeria in alluminio di serie. Stando alle immagini la linea laterale di questo esemplare sembra richiamare alla memoria qualcosa dell’inglese Marcos, mentre la parte posteriore, in particolare nell’andamento del padiglione e del suo raccordo alla coda tronca, richiama la «Cobra Daytona Coupé».
Questo prototipo, dopo essere stato acquistato nel 1971, venne parcheggiato in un box coperto dove rimase senza mai vedere la luce del sole, per i 40 anni successivi; attualmente è in restauro e dovrebbe anch’esso servire da base per futuri coupé seconda serie (sensibilmente più lunghi ed aerodinamici della prima serie).
2006: nasce la «Cheetah Continuation Collectible»
In questo come in diversi altri casi il ritorno a nuova vita di un’auto particolare nacque dall’impossibilità di potersene comprare una originale e così uno dei promotori dell’iniziativa pensò bene di rivolgersi nel 2001 a Bill Thomas, ottenendone l’entusiastico appoggio personale ed un’ufficiale autorizzazione a realizzare la «replica» utilizzando loghi e quant’altro; altro colpo di fortuna fu non tanto il ritrovamento, in Ohio, di un esemplare originale ma il fatto che il fortunato proprietario mettesse a disposizione l’auto dalla quale vennero ricavati gli stampi per la carrozzeria e per le pannellature interne mentre dal telaio, una volta messo a nudo, si ricavò la maschera necessaria per la costruzione dei nuovi telai.
Il lavoro preparatorio, eseguito ovviamente con modalità artigianali, si concluse nel 2006, con contemporaneo avvio della produzione della versione aggiornata della Cheetah per mano della «Cheetah Continuation Collectible» la cui proprietà ha presentato la vettura come «Not a Replica but a Continuation of the Original» ed ancora «It Doesn’t Get More Original Than This».
Questa nuova Cheetah è stata interamente ricostruita nel rispetto del concetto originale, con misure, motorizzazioni, interni e quant’altro coincidenti a quelle del passato; le uniche modifiche rispetto alla versione degli anni ’60 sono consistite in alcuni aggiornamenti, effettuati in nome della sicurezza.
Ecco, più in dettaglio le sue principali caratteristiche:
- Corpo vettura: carrozzeria in fiber-glass realizzata interamente a mano.
- Telaio: in tubi al Cromo- molibdeno 4130 verniciato a polvere.
- Sospensioni: indipendenti e completamente regolabili sulle 4 ruote; molle e ammortizzatori coassiali; retrotreno indipendente
- Freni: a disco, ventilati
- Sterzo: a pignone e corona
- Cerchi e gomme: American Torg-thrust vintage racing con BFGoodrich Radial T/A 15×7 anteriori e 15×8 posteriori
- Peso a vuoto: 680 kg
- Lunghezza: 403,8 cm
- Passo: 228,6 cm
- Carreggiata Anteriore 149 cm. Posteriore 144,7 cm
- Dimensioni: Altezza 119,4, Larghezza 172,7 cm
- Propulsore base: Chevrolet Smallblock 350 V8
- Alimentazione: 2 carburatori quadricorpo 500 CFM
- Scarichi: stile racing, schema 4 in 1; rivestiti in ceramica
- Sistema di raffreddamento: Radiatore, derivazione Corvette, in alluminio
- Trasmissione: cambio Muncie a 4 velocità + RM
- Serbatoio carburante: in alluminio da 56,7 litri
La nuova Cheetah è in vendita a un prezzo che, in base alle motorizzazioni ed agli optional tecnici, parte dai 119 ai 125.000 dollari americani ma queste sono quotazioni standard in quanto la Casa può praticamente costruire la Cheetah sulla base delle specifiche fornite dal cliente. Per quanto attiene ai tempi di consegna (negli USA) questi variano dai 90 ai 150 giorni per le ordinazioni standard.
Commercializzazione in atto anche per la Coupé «Aluminium super Cheetah» (la cui carrozzeria in alluminio viene costruita in Polonia) per il quale occorrerà essere pronti a sborsare, al minimo, 119.000 dollari.
Nel sito Ufficiale della BTM (Bill Thomas Motors http://www.billthomascheetah.com/) si può trovare ampia documentazione sia fotografica che sotto forma di filmati sulla storia del marchio, sull’intera produzione, con particolare riferimento alle fasi di restauro e/costruzione ampiamente documentate in ampio dettaglio.
Modellismo (Auto di nicchia – modelli rari!)
Una certa diffusione ha avuto il modello Slot Cheetah in scala 1/32 (Monogram, Carrera).
In scala 1/24 ricordiamo il vecchissimo kit Merit, oggi pressoché introvabile del quale riproduciamo l’immagine della scatola di montaggio il cui interno mostra una Lancia-Ferrari F1 D50 ma la cui confezione era identica indipendentemente dal modello contenuto.
Giovanni Notaro
■ Ecco infine serviti quanti desiderano visionare filmati della Cheetah in azione:
http://www.youtube.com/watch?v=IjfthCpI75Q (Cheetah 1965 Keck Vintage Racing in corsa al VSCDA 2012 ad Elkart Lake)
http://www.youtube.com/watch?v=iCGm8OaQ1fA (Ledenon Nissan 500 GTR vs Cheetah)
http://www.youtube.com/watch?v=IjfthCpI75Q (Elkart lake versione aperta)